Donata, una delle mie numerose cognate, è venuta a godersi l’estate nizzarda. Sposata con 3 figli, abita in Svezia e lavora come assistente di scuola materna. Così è ricominciato il solito rituale delle rimpatriate in famiglia: le sommesse chiacchierate in kinyarwanda sul balcone di cucina, lo sfoggio di pagne e bubu, il bougari prelevato con le dita dal piatto comune. Per la verità il bougari è una specialità zaïroise che da bambine avevano il divieto di mangiare perché era roba da contadini hutu, così adesso si sfogano approfittando di ogni occasione per ingozzarsi senza il papà che le minaccia con il bastone. Naturalmente mi unisco al gruppo. Bisogna prendere un po’ di polenta di manioca DAL BASSO (se la prendi dall’alto ti saltano in testa come se avessi commesso un crimine), farne una pallina, intingerla nella salsa della carne insaporita dal pili-pili, cacciarsela in bocca e ingoiarla senza masticare. Quanto alla carne, è solamente decorativa. Guai a mangiarla, è da buzzurri.
Il tocco finale è il DVD di un vecchio film indiano. So perché l’hanno comprato. Quando l’ho visto, ho pronunciato le parole magiche: “Andiamo al Caméo.” Tutt’e due sono scoppiate a ridere, ma mia moglie aveva gli occhi umidi di commozione. Perché chi non ha abitato a Bujumbura prima della televisione, prima di internet, prima del cellulare non può immaginare che cosa rappresentasse il Caméo in quelle lunghe, torride giornate che si trascinavano interminabili fino alla precoce oscurità di una notte che sembrava ancora più lunga del giorno. C’erano altri cinema, il Paguidas, il Méridien e in tempi più recenti l’Odéon Palace, ma solo il Caméo era il Paese delle Meraviglie per i bambini di Bujumbura e ancora di più per i figli dei rifugiati rwandesi che avevano perso tutto, la casa, la terra, le vacche, la patria e potevano rifugiarsi soltanto nei sogni. La domenica mattina da Cibitoke a Bwiza, da Kinindo a Buyenzi, da Kabondo a Ngagara era tutta un’affannosa ricerca per racimolare i 110 franchi burundesi (nemmeno 40 centesimi di euro) che avrebbero consentito l’ingresso nel regno dei sogni. La domenica i bambini si dividevano in 2 categorie: quelli sorridenti che avevano i 110 franchi e quelli con la faccia lunga che non li avevano.
Perché solo il Caméo ti faceva sognare, solo in quella vecchia sala si proiettavano i film indiani, fiabe colorate delle quali non capivi una parola ma potevi vedere costumi sgargianti, palazzi incantati, danze fantastiche e ascoltare meravigliose canzoni. Non per niente il Caméo si trovava ai margini del Quartiere Asiatico. Venendo dalla strada di Rumonge si poteva raggiungere con una scorciatoia, sdrucciolando lungo una scarpata di terriccio rosso invece di fare un giro più lungo seguendo la strada carrozzabile. E ai piedi di quella scarpata ti aspettava un altro mondo. Da una parte la città europea, un‘orgia di Art Déco coloniale, dall’altra la città araba, nata molto prima che Livingstone arrivasse in Burundi, con le sue mura scrostate, i vicoli misteriosi, i patios segreti, le taverne simili a cantinas messicane, le antiche prigioni per gli schiavi, le botteghe di spezie, di pagne, di sari, i minuscoli uffici con fax e telefoni collegati al mondo intero, il vero cuore pulsante della città, il paradiso del commercio. Là, alla frontiera dei due mondi, si trovava il Caméo. Inaugurato nel 1922, era rimasto praticamente intatto da allora. Due sale, una per i film dei bianchi che in realtà erano quasi tutti di karaté, western-spaghetti e polizieschi di serie B, l’altra per i film indiani. Decrepiti, scricchiolanti sedili a ribalta, consumati e sfondati da generazioni di natiche indoafricane. Sul pavimento, a mo’ di moquette, uno strato di gusci di cacahuètes. Sulla parete di sinistra un affresco rappresentante un’improbabile danza degli Intore, i guerrieri tutsi, con gonne leopardo, pennacchi biondi, lunghe braccia e lunghe lance su uno sfondo di colline verdognole. In mezzo al soffitto un ventilatore dalle pale di legno che non funziona più dai tempi del principe Ragwasore, con festoni di ragnatele di ragni ormai morti di vecchiaia. Sulla parte di destra una porta che dà su un minuscolo cortile recintato da un muro, la toeletta. A volte, per entrare gratis, i bambini scavalcano il muro finendo diritti nel liquame. Che cosa importa? Il sogno vale bene uno schizzo. Li vedi entrare, piccole sagome più scure del buio, e fissare lo schermo così affascinati che dimenticano di cercare un posto per sedersi. Ancora oggi gli antichi spettatori del Caméo giurano che niente li ha mai resi così felici. Caméo, angolo di paradiso, uno per uno gli altri cinema sono scomparsi ma tu sei rimasto. Oggi su di te si allunga l’ombra dei minareti dell’immensa moschea regalata da Gheddafi. Anche se un giorno le ruspe ti raderanno al suolo, vivrai per sempre nei nostri cuori. In qualche parte del mondo ci sarà un tuo antico spettatore che guarda un film indiano. Forse per lui Bergman, Almodovar e Wenders non avranno segreti, ma si divertirà a trepidare per un’ingenua storia con il buono, il cattivo, la bella, la mamma, il comico, una profusione di balli e canzoni, rivivendo la sua giovinezza e mormorando con una lacrima di nostalgia la formula magica che in un’epoca sepolta nel ricordo, nella sonnolenta capitale di un lontano paese al centro dell’Africa, schiudeva il paese delle meraviglie, il regno della fantasia, la porta dei sogni, un mondo meraviglioso dove tutto era possibile: “Andiamo al Caméo…”
Dragor
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