L’altro giorno ho parlato con Emmanuel, un anziano che mi ha descritto la brutalità del colonialismo belga. In Africa hanno imperversato molti colonialisti, ma i belgi erano i peggiori di tutti. Secondo Emmanuel venivano direttamente dall’inferno e il loro Lucifero si chiamava Leopoldo II. Dopo avere usato Stanley per impadronirsi del Congo, Leopoldo-Lucifero ha cominciato a depredare il paese per riempirsi le tasche, usando mercenari che trucidavano brutalmente ogni indigeno che non obbedisse ai loro ordini. Quando i suoi imbarazzati colleghi colonialisti lo hanno costretto ad allentare il controllo sulle colonie, migliaia di congolesi erano morti ammazzati e altre migliaia si ritrovavano con un braccio o una gamba in meno.
I sudditi di Leopoldo non si sono rivelati migliori. Per qualche motivo, i cattolici sono i colonialisti più feroci, basta vedere quello che hanno fatto i francesi, gli spagnoli, i portoghesi e gli italiani. Il saccheggio del paese e i lavori forzati per gli abitanti sono continuati come prima. Non si facevano più massacri e amputazioni, ma le punizioni inflitte al loro posto erano quasi altrettanto crudeli. Ed è questa gente che ha ricevuto dalla Società delle Nazioni il compito di governare il Ruanda-Urundi (Rwanda e Burundi) in seguito alla sconfitta della Germania nella Prima Guerra Mondiale. Parlavano di un “protettorato” perché il Mwami rwandese era rimasto formalmente al suo posto, ma si trattava di una colonia bella e buona. Bastava una piccola negligenza nel lavoro forzato e i rwandesi venivano spietatamente puniti. Per le piccole infrazioni c’erano le multe, sempre che il trasgressore avesse soldi. Altrimenti doveva pagare con una parte della sua proprietà, vale a dire il bestiame o il raccolto. Qualcuno offriva mano d’opera in aggiunta al lavoro forzato. Il processo era arbitrario, perché nessuno aveva codificato l’importo delle multe, così tutto dipendeva dall’umore del momento. I colonialisti delegavano l’esazione delle multe ai capi locali (abamotsi). Questi leader erano scelti in una sola etnia, in modo da metterla contro le altre e impedire alleanze contro l’oppressore coloniale.
Poi c’erano le prigioni. In un paese totalmente estraneo all’idea dell’imprigionamento, dove non si concepiva nemmeno l’idea di chiudere qualcuno fra quattro mura, le prigioni sono state introdotte per punire vari crimini, di solito l’evasione fiscale. Secondo la gravità del reato, si poteva essere imprigionati per giorni, settimane, mesi o anni. I prigionieri erano legati fra loro con catene e per questo ancora oggi in Rwanda la parola “catena” (umunyururu) definisce sia la prigione che il detenuto. Se un prigioniero moriva, non era raro vedere il suo cadavere trascinato dai compagni.
Se la cosa vi sembra crudele, pensate che in Congo i prigionieri non erano attaccati alla catena ma la catena veniva passata attraverso una gamba, fra il tendine e la tibia, in modo da riunire i prigionieri in gruppo. E spesso capitava di vedere questi gruppi lavorare nei campi tirandosi dietro dei cadaveri.
La terza punizione era la confisca dei beni. I beni venivano confiscati se un funzionario coloniale riteneva che un indigeno avesse trasgredito ai suoi ordini. Oppure se un missionario riteneva che l’indigeno non facilitasse il suo lavoro, ossia quello di convertire gli indigeni alla religione cattolica. Naturalmente i suoi beni finivano nelle capaci casse della Chiesa. Questo spiega perché nessun missionario ha mai denunciato gli orrori del colonialismo. Ne erano parte integrante.
C’era anche l’esilio. Fra gli esiliati c’erano molti notabili rwandesi fra cui il re Muzinga, colpevole di essersi opposto al disegno coloniale e di avere chiesto la partenza dei missionari. Un destino migliore di quello di Mutara III, ucciso da un medico belga con un’iniezione di veleno all’ospedale Prince Ragwasore di Bujumbura per avere chiesto l’indipendenza del Rwanda all’ONU e denunciato la politica razzista della chiesa cattolica.
Ma fra tutte le punizioni, la più umiliante era sicuramente il ”kiboko”, una parola che in swahili significa “ippopotamo”. I belgi hanno adottato “ikiboko” per definire una striscia di cuoio d’ippopotamo attaccata a un manico. Le frustate che piovevano sui rwandesi erano necessariamente 8. Per esempio, chi non concimava o non piantava il richiesto numero di piante di piretro riceveva 8 frustate. La parte più umiliante consisteva nello stendersi sul terreno a faccia in giù con il didietro scoperto. Per dividere le etnie, il colonialista somministrava di nascosto dai sudditi le 8 frustate al capo, poi ordinava al capo di frustare i sudditi. Così i sudditi se la prendevano con il capo e non con il padrone colonialista. In questo e altri modi si praticavano e si alimentavano le divisioni.
Emmanuel si scopre la schiena e mi mostra le cicatrici delle frustate, ancora visibili dopo 70 anni. Doveva essere molto indisciplinato.
Dragor
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