journal intime

Gli italiani devono rinnegare l'architettura fascista?

 
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 RICORDO una volta a Sabaudia. Mi chiederete: che cosa sei andato a fare a Sabaudia? Infatti non avevo nessun motivo di andare nella cittadina a sud di Roma, uno di quei posti infestati dalla malaria che Mussolini ha reso abitabili con la bonifica dell'Agro Pontino. Proprio nessun motivo tranne uno: sognare. Perché l'architettura razionalista, di cui lo stile fascista in qualche modo  fa parte, mi ha sempre fatto un effetto onirico. Se passo davanti a un edificio razionalista o anche art déco provo l'arcana sensazione di essere già stato in quel posto. Da bambino, tenuto per mano dalla bambinaia. Il posto mi evoca ricordi inesistenti, perché in realtà non sono ricordi ma fantasie. Il tutto si traduce in un dolce senso di dissoluzione simile a quello provocato da certe droghe, con la differenza che nessuno ha ancora provato la nocività dell'architettura fascista sull'organismo.

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   COSI' SONO ANDATO a Sabaudia in cerca della dolce dissoluzione, che puntualmente è arrivata in piazza del Comune alla vista dei bianchi edifici. così misteriosi nel loro impenetrabile geometrismo. Echi di De Chirico, delle Piazze d'Italia nettamente divise fra l'ombra e la luce del sole. Dopo avere fatto il pieno di metafisica, mi sono sentito  più o meno come la bambina che gioca con il cerchio in "Mistero e Malinconia".  

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    CERTO, i razionalisti italiani non sono tutti uguali. C'è Piacentini che s'ispira agli antichi Romani e Terragni che si ispira agli olandesi dell'epoca. Secondo la correttezza architettonica Piacentini ha progettato orrori e Terragni capolavori, ma gli orrori di Piacentini hanno un valore storico come quelli di Muzio o di Coppedé. L'Italia è anche questo, perché ignorarlo? Laura Boldrini, che vorrebbe demussolinizzare l'obelisco mussoliniano, non è soltanto ignorante ma manca di fantasia. Ormai questi monumenti non sono più fascisti, sono storici.  La prima cosa che vedete quando arrivate in treno da Nizza in Italia è la stazione di Ventimiglia, superbo esempio di architettura fascista come il municipio della stessa città. Sono questi edifici, così deliziosamente italiani, a fare la differenza. In Francia non c'è niente di simile.

                                                                                                           Dragor

Helsingor, il castello di Amleto

 

 

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Il Kronborg, il castello-fortezza nel quale Shakespeare ha situato "Amleto"

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  Se arrivate a Helsingor con il treno e non avete voglia di camminare fino al castello, niente paura. La stazione ve ne offre una copia

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   Nel castello potete ammirare i modesti bastioni

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   Le piccole sale

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La splendida corte dove aleggia il fantasna del papà di Amleto

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 Un tip per decifrare lo stile architettonico detto "Rosen" (dal castello di Rosenborg a Copenaghen): Rinascimento italiano in basso, Rinascimento olandese in alto.

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  I cannoni puntati contro la vicina Svezia (a 4 km sulla sponda opposta dell'Oresund), casomai a quei brutti svedesi saltasse in mente d'invadere la Danimarca.

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   To pee or not to pee, that is the question.

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                                                                                     Dragor

Mattone, che passione!

   Fra le cose simpatiche di Copenaghen ci sono certi edifici di mattoni che ricordano la vecchia architettura americana di New York e di Chicago.

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   Qui c'è perfino il ristorante italiano che fa tanto Brooklyn.

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Piacerebbe a Sullivan, il maestro dell'architettura americana

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   L'uso dei mattoni è sempre eccellente

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Visto il posto, ogni tanto si sconfina in creazioni un po' espressioniste

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                                                                Dragor

 

Prince Rwagasore, l'ospedale della morte

   SO CHE PASSATE notte insonni, tormentati da questa angosciosa domanda: nello splendido post L’Art Déco a Bujumbura che Dragor ha pubblicato nel 2011 non c’è quel grande classico del Déco bujumbureno che si chiama ospedale Prince Rwagasore, quello splendido mausoleo cosí funereo che al confronto l’obitorio di Kiev sembra Les Folies Bergère, cosí metafisico che al confronto De Chirico sembra un reality show. Come mai? Dragor, sempre cosí preciso, puntuale e soddisfacente, si è scordato di quel capolavoro? Che cominci a soffrire di Alzheimer? Oppure, un’ipotesi più verosimile, che quell’edificio sia legato a una fase della sua vita che preferisce dimenticare?

   BRAVI! Dopo esservi rigirati centinaia di volte e avere fissato il soffitto per buona parte della notte, alle ore piccole del mattino avete avuto l’illuminazione giusta. Per premiarvi, Dragor ha affrontato per voi i fantasmi del passato e oggi vi offre l’ospedale Prince Rwagasore! E non soltanto, ma vi racconta quello che è successo!   

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Il Prince Rwagasore in tutto il suo splendore rétro

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   E come si presenta oggi

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   UN TERRIBILE GIORNO dell’ottobre 1988 un Dragor più morto che vivo veniva ricoverato al Prince Rwagasore. Da una settimana non mangiava e non beveva. Poiché le sue difese immunitarie si erano ridotte praticamente a zero, microbi e virus di ogni specie si davano alla pazza gioia nel suo organismo devastato. Perché si trovava in quelle condizioni? Perché una settimane prima, sulle montagne di Bugarama, aveva  visto una banda di Hutu massacrargli quanto aveva di più caro. Cosí il guscio vuoto di Dragor veniva affidata a un medico belga, il dottor Jean-Marc Pulaert. Ma questo medico era amico per la pelle di un altro medico belga, il cattolico Julien Vyncke che 29 anni prima, per ordine dei preti Léon Classe e André Perraudin, oltre che del governo coloniale belga, in quello stesso ospedale aveva assassinato con un’iniezione letale il re rwandese Mutara III, reo di avere chiesto all’ONU l’indipendenza del Rwanda e la partenza dei missionari, oltre che di avere detto che in Rwanda non esistevano etnie ma solo cittadini, contraddicendo cosí la politica razzista dei belgi e dei preti.

   COME HA VISTO DRAGOR, Pulaert si è fregato le mani. «Ma bene», ha pensato. «Ecco qui il tizio che sostiene la politica anticlericale del presidente Baghaza, che va a vedere i missionari che fanno fagotto inquadrati dai militari e gli fa pure il gesto dell’ombrello. Adesso lo arrangio io.» Cosí, pur sapendo che aveva una forma grave di malaria, gli ha diagnosticato una polmonite in modo che il virus malarico potesse ucciderlo.

   MA AVEVA FATTO I CONTI senza Dragor. Benché moribondo, nutrito a forza dalla donna che in seguito sarebbe diventata sua moglie, con un disperato sussulto di vitalità Dragor la incaricava di chiamare un medico estraneo all’ospedale, il dottor Dieudonné Kaneza, quindi ordinava a Kaneza di curarlo con iniezioni di clorochina. Il medico obbediva, eludendo la sorveglianza di Pulaert e dell’infermiera assassina Joséphine Bizimana. Cosí, grazie alle iniezioni e alle amorevoli cure della sua futura moglie, Dragor si riprendeva e 2 giorni dopo si autodimetteva dall’ospedale, non senza fare il gesto dell’ombrello anche a Pulaert e una pernacchia a Joséphine. 2 mesi dopo sarebbe partito per Parigi con la sua salvatrice che già portava nel ventre la piccola Minou.

   NEL 2011 ho cercato Pulaert per vendicarmi ma mi hanno detto che era tornato in Belgio dove nel 2004 un cancro alla gola aveva sbarazzato il mondo della sua perniciosa presenza.

Dragor

 

Kampala's slums

  Quando vanno all’estero, gli abitanti di Kampala descrivono la loro citta’ come una specie di Manhattan. Non e’ che manchino i grattacieli, ma al vostro arrivo vedete questo :

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   Dragor

 

 

L'Art Déco a Bujumbura

  La mia vecchia Bujumbura assomiglia a Nizza. Come Nizza, ha l’acqua davanti e le montagne dietro. C’è perfino la Promenade des Anglais, un lungolago che va dal Cercle Nautique al porto (invece che all’aeroporto come a Nizza) e dovrebbe chiamarsi piuttosto Promenade des Indiens, visto che lo frequentano soprattutto gli indiani del vicino Quartier Asiatique. Come Nizza, Bujumbura è tropicale e francofona. Come Nizza, è fissata sul passato. Cara vecchia Bujumbura, tornate dopo una vita e la trovate come l’avete lasciata, con la sua polvere rossa, le sue buche, la sua sporcizia, i suoi favolosi giardini, le sue piante secolari,  i suoi fiori, le sue splendide ville, le sue baracche miserabili, i suoi bus scassati, il suo caldo soffocante, i suoi ladri, la sua pigra atmosfera coloniale, le sue frotte di bambini cenciosi, la sua apartheid, le sue vacche, i suoi ippopotami, il suo fantastico quartiere orientale. Cara Bujumbura, al confronto della fredda, asettica Kigali meriti 0 in progresso ma 10 in fascino.

 Sì, il fascino è tutto tuo, il fascino della storia. Basta guardare la tua architettura per scoprire un’altra somiglianza con Nizza: qui trovate il migliore Art Déco che esista fuori di Nizza. Negli anni Venti e Trenta, quando Kigali era ancora un paesotto, a Bujumbura si esercitavano i migliori architetti delle colonie. Giudicate voi stessi.

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   Questo capolavoro ricorda Wright prima maniera (cliccare per ingrandire)

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    L''angolo rotondo, un classico

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    Tutto il fascino degli anni Venti

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        Grande gioco di curve e angoli

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    Geometrismo alla Mondrian      

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 Splendido Déco coloniale

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American Touch

 
  

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    A volte basta un piccolo particolare per suggerire il Déco

 

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    Il caro cinema Caméo che da solo merita un post

 

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    Il Burundi Palace, rendez-vous del tout-Bujumbura degli anni 30

  

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    C'e' perfino il tocco funerario, un altro classico del Déco

 

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    La Posta. Le hanno fatto il lifting ma risale al 1926

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     Qui il lifting non lo hanno fatto ma lo charme e' immutato

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   L'Hotel Paguidas, che era il piu' bell'edificio Déco di Bujumbura, lo pubblico alla memoria perche' lo hanno distrutto, che li possino...

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    Spero che la visita vi sia piaciuta. Darei tutta Kigali per un solo edificio di Bujumbura

    Dragor

Ma che look ha un credente?

   Io lo immagino piccolo, foruncoloso, con il mento sfuggente, un principio di calvizie, denti da coniglio e Famiglia Cristiana in tasca, ma probabilmente sono prevenuto perché in realtà niente gli impedisce di assomigliare a un surfista californiano. In ogni caso la questione è di attualità perché il rettore  della cattedrale di San Vito a Praga ha detto che d’ora in avanti per entrare in quella chiesa ci sarà un doppio regime: gli atei pagano, i credenti no. Naturalmente qualche ateo vorrà fare il furbo e fingersi credente per non pagare, ma il  rettore  è categorico: un ateo si riconosce subito. Richiesto di essere più preciso, ha detto vagamente che gli atei hanno la macchina fotografica, ma la cosa non sta in piedi perché questo significa non far pagare tutti i visitatori che non hanno la macchina fotografica o che magari se la sono messa in tasca, a meno che non si voglia passarli ai raggi X come si fa negli aeroporti. Così la domanda rimane di attualità: qual è il look di un credente?

  

   Una cosa è certa: io devo averlo, perché sono sempre entrato gratis nelle chiese che fanno pagare gli atei (sì, quella di San Vito a Praga non è l’unica). E non soltanto nelle chiese ma anche nelle moschee, ovviamente togliendomi le scarpe e qualche volta travestendomi da arabo per ingannare gli scaccini che si rifiutavano di credermi un musulmano bosniaco. Qualcuno dirà: ma se non sei credente, perché ci tieni tanto a entrare nelle chiese e nelle moschee? Che domande, perché non servono a niente, così sono meravigliosi esempi di architettura fine a se stessa. E tutti sanno che, quando non e costretta da noiosi vincoli come i disimpegni, gli spazi abitabili o il girobraccio, l’architettura dà il meglio. Ecco perché negli edifici religiosi potete vedere i più favolosi esempi di romanico, gotico, barocco o moresco, a parte il fatto che le chiese sono anche ottimi strumenti musicali. Non esiste una migliore cassa di risonanza per un organo, provare per credere.

 

     Dragor

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La nuova ambasciata americana a Londra

  COME LA VORREBBE DRAGOR

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 COME SARA'

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                    Dragor

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La casa che non voglio vedere

  Faccio un sogno ricorrente che mi sembra vero, come se fosse il ricordo di un evento reale. Ma ignoro se ho realmente vissuto questa esperienza. Nel sogno ho 5 anni e passeggio dando la mano alla bambinaia. Non so in quale città, ma so che a un certo punto arriverò davanti a una casa che non voglio vedere. E’ giorno, picchia il sole, le vie deserte si allungano a perdita d’occhio. Il silenzio è profondo. Più ci avviciniamo alla casa che non voglio vedere, più ho paura. Cerco di svincolarmi, punto i piedi, ma la bambinaia mi trascina. E poi arriviamo…

 

    La casa che non voglio vedere è attaccata alle altre e nella via si vede soltanto la facciata. Non è alta, ha tre piani al massimo, e non molto larga. E’ coperta di  lastre di granito grigioverde con 3 finestre formate da un rettangolo il cui lato superiore è un arco a tutto sesto, completamente nere. Sopra la porta d’ingresso c’è un triangolo simile a un timpano stilizzato. E a questo punto, davanti alla casa, accade quello che temevo.

 

   Non sono più io. E come se mi vedessi dall’esterno. Mi sono dissociato dal mio corpo. Mi chiedo chi sono, che cosa faccio, dubito di esistere. La bambinaia non vede me ma quel corpo vuoto. Lo guardo anch’io e so che non sono io. Mi sento solo e così il sogno finisce.

 

   Quella casa è in stile Art Déco. Da quando faccio quel sogno, cerco l’Art Déco con un atteggiamento controfobico, come se volessi rassicurarmi dimostrando a me stesso che non mi fa niente. Mi diverto a passeggiare per Nizza, dove c’è déco ogni 10 metri. Nella mia casa ho una quantità di suppellettili déco, che essendo geometriche si accordano con lo stile giapponese e scandinavo. E fuori la città è piena di deliziosi incubi nei quali l’ego si smarrisce in labirinti metafisici...

 

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    Non perdetevi il Palladium, 2 bvd Tzarevitch (1929, arch. Nenot e Labbe). Sembra un mostro che allunga le braccia verso

di voi.  Sgomento assicurato. (Cliccare per ingrandire)

 

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        In rue Victor-Hugo, uno splendido esempio di Art-Déco all'americana  (1929, Dikansky)

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   Il Palais des Palmiers in rue Clémenceau (1933, Constantin e Cordone).  Notate il gioco dei solarium.

 

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    Rue Victor-Hugo, ovvero: il trattamento dell'angolo (1938, Messiah)

 

 

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            Bvd Dubouchage, quando  il balcone è arte

 

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   Rue Déroulède (1935, Aubert). A parte le pietre grigie, la casa che più mi ricorda quella del sogno.

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             Dragor

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PARIGI ADDIO

   Parigi ha i giorni contati. Cedendo alle pressioni delle lobby immobiliari e forse anche a un’ossessione fallica, il sindaco Bertrand Delanoë ha tolto di mezzo l’ostacolo che limita l’altezza degli immobili parigini a 37 metri. Gli architetti si sono subito scatenati, progettando grattacieli in tutti i quartieri della capitale.

 

    Così, a causa di uno stupido capriccio, Parigi si riempirà di torri. Sempre pronte a scannarsi per un’inezia, in questo caso la destra e la sinistra sono rimaste stranamente silenziose. Eppure si tratta di un progetto scandaloso, perché è contrario allo spirito di Parigi. Già piene di torri, la Défense e le rive della Senna sono i quartieri più brutti della capitale, dove nessuno vuole abitare. E quando si parla di habitat, il vero parametro di giudizio è proprio questo: vi piacerebbe abitare qui?  Nessuno vorrebbe abitare alla Défense, che già durante la costruzione Jacques Tati  ha denunciato come un’aberrazione umana nel suo splendido film Playtime. Quanto alla torre Montparnasse, che si trova nel quartiere omonimo, sembra un capello nella zuppa e  guasta tutta la prospettiva della città.

 

   Negli anni Trenta il governo del Fronte Popolare ha chiesto a Jacques Carlu, un  architetto che aveva  abitato a New York,  di progettare il palazzo del Trocadéro in stile americano, vale a dire per linee verticali.  Carlu si è rifiutato: per lui, come per qualsiasi persona dotata di un minimo di cultura, Parigi era una città orizzontale. Il suo fascino deriva proprio da questo. Ma oggi Parigi è governata da una massa d’ignoranti non molto diversi da quei presidenti africani che, quando si propone loro un progetto immobiliare, domandano subito: “Quanti piani?”

 

    In realtà nessuno ha voglia di abitare in un  grattacielo, nemmeno gli architetti che lo hanno progettato, e i parigini meno degli altri perché le torri ricordano loro le orribili case popolari della banlieue. Parigi non appartiene ai politici che stanno facendo di tutto per imbruttirla. Parigi appartiene al mondo intero, ma che cosa si può fare di fronte agli assalti della nuova barbarie travestita da progresso? Solamente piangere sui tetti grigi della Parigi che amiamo e che presto scomparirà sotto una colata di cemento.

                   Dragor

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